14 Mar Luca Varani, vittima di famiglie “coraggiose”
Luca Varani, un nome che ci ricorda un bravo ragazzo vittima di crudeltà disumane.
Lo stesso nome ricorda anche un altro Luca Varani, questa volta non vittima ma carnefice: il giovane e ricco avvocato che ha fatto accapponare la pelle a chiunque abbia seguito la sua intervista al programma televisivo “Storie Maledette”, accusato di essere mandante dell’aggressione con l’acido a Lucia Annibali.
Insomma, un nome, una maledizione.
Dei due reati, quello del Collatino ha catturato molto la mia attenzione non solo per la trappola agghiacciante in cui è caduto il povero Luca, ma anche per le argomentazioni portate avanti con sommo coraggio dai padri dei criminali, Valter Foffo e Ledo Prato, i quali entrambi hanno sottolineato in TV ed in rete, l’effetto sorpresa del gesto commesso dai rispettivi figli, che, pare, non avessero mai dato segni di squilibrio nella loro storia di vita.
Sappiamo tutti come si sono susseguiti i fatti. Manuel e Marco hanno iniziato l’assunzione di cocaina 48 ore prima del delitto; avevano a disposizione circa 1800 euro di coca, pari a 20/24 grammi in due, oltre a fiumi di alcol, probabilmente decine di bottiglie.
Molti mi hanno chiesto se l’assunzione di cocaina potesse determinare, da sola, il compimento di simili atrocità.
La risposta è che la cocaina e l’alcol determinano delle modificazioni strutturali e funzionali del cervello, coinvolgendo la corteccia frontale e, in base al quantitativo di cocaina assunta, accende le aree sottocorticali dell’encefalo che sono collegate al soddisfacimento degli impulsi più arcaici e all’aggressività.
Per chi è coinvolto le implicazioni comportamentali potrebbero essere:
- Difficoltà di inibizione dell’azione
- Difficoltà nella pianificazione
- Elevata impulsività
- Marcata labilità emotiva
- Alterazioni dell’ “intelligenza sociale” che supervisiona la selezione dei comportamenti più adeguati alle circostanze
Quindi, l’alterazione metabolica nella corteccia prefrontale spiegherebbe i deficit del controllo inibitorio, delle funzioni esecutive e della presa di decisioni riscontrate in chi usa cocaina.
Ma questo è sufficiente a spiegare l’agghiacciante delitto?
Probabilmente no. Se fosse “solo” questo, ogni cocainomane potrebbe potenzialmente commettere l’impossibile; per fortuna, non accade spesso.
Bisognerebbe, dunque, soffermarsi sul PRIMA.
Qual è l’itinerario di vita che porta un ragazzo ad avvicinarsi alle sostanze, ad abusarne fino a commettere delitti di tale portata? Marco e Manuel avrebbero potuto avere tutt’altre caratteristiche se fossero cresciuti in modo diverso? Se avessero curato la loro dipendenza? Se qualcuno intorno si fosse accorto che insieme al “bravo ragazzo con un quoziente intellettivo superiore alla media” conviveva un ragazzo impulsivo, aggressivo, delirante?
Infatti, le figure che non escono a testa alta dalla vicenda sono proprio i padri dei due ragazzi. Forse, osservando le loro reazioni, potremmo avere una risposta alle precedenti domande.
Il padre di Manuel, Valter Foffo, si accomoda nel programma di Bruno Vespa a meno di due giorni dal delitto e ritiene opportuno sottolineare che il figlio, bravo ragazzo, “dotato di Q.I. superiore”, stesse molto soffrendo per la perdita del caro zio, come se questo fosse un movente plausibile per spiegarne il gesto. Un ragazzo intelligente, Manuel, che da trentenne fuoricorso, consumatore abituale di sostanze da quando era adolescente, viene definito “un ragazzo modello”. Non il buon senso di capire che esaltare le qualità eccelse del figlio cozzava in modo sgradevole con il rispetto per il dolore dei genitori di Luca.
Poi c’è il padre di Marco, Ledo Prato, esimio professore, illuminato, il quale scrive una lettera aperta sul suo blog completamente autoriferita, in cui, fra un passo del Vangelo e l’altro, esalta il suo valore di uomo riprendendo, a conferma di ciò che lui pensa di se stesso, le parole dei suoi amici. Peccato che anche dalle sue parole, come da quelle del padre di Manuel, trasuda egocentrismo, assenza di empatia e di dolore autentico, se non quello per la rovina della sua immagine sociale. Neanche una parola di pietà per la vittima e per coloro che la piangono.
In una tragedia nella tragedia, sono troppe le domande e poche le risposte certe.
E’ troppo difficile ridurre le leggi che governano le relazioni madre-padre-figlio al determinismo causa-effetto. D’altronde i responsabili sono solo due, ma io penso che anche chi li difende deteriora il valore della verità e della vita.
Posto che nessun padre può essere responsabile delle atrocità commesse da un figlio, resta da chiedersi come sia avvenuta in queste due famiglie l’educazione ai sentimenti, al rispetto e all’attenzione per l’altro.
La sensibilità umana, la capacità di riconoscere e raffinare i propri sentimenti, non è un processo automatico. Va costruita.
L’uomo un tempo uccideva per sopravvivenza, per cercare il cibo e per difendere il suo gruppo, oggi continua ad uccidere senza una necessità biologica, ma solo in nome di qualcosa che si concretizza negli impulsi aggressivi e nasce in un’idea: delitti pianificati per riempire il vuoto della propria vita saziandosi della morte di un altro, omicidi commessi per “vedere cosa si prova” sostenuti in genere da deliri di onnipotenza, da idee morbose a volte di persecuzione altre volte di grandezza, in ogni caso da logiche deliranti.
Quanto è responsabile la rete familiare e sociale che è a conoscenza della pericolosità del proprio figlio/amico/compagno e non fa nulla per aiutarlo?
Certo, il criminale è chi uccide, ovvio.
Ma i padri e le madri che escono ed entrano di casa senza vedere e senza ascoltare, gli amici che talvolta hanno paura di segnalare, denunciare, e fanno rientrare il più bizzarro dei comportamenti nei parametri della normalità, che ruolo hanno?
Non certamente un ruolo decisivo, ma di mantenimento o mascheramento del problema, forse sì.
Ognuno è responsabile di se stesso e questa è una verità indiscutibile ma esiste anche una cultura fatta di “attenzione” all’altro che implica il non essere indifferenti e smettere di normalizzare ciò che normale non è; avere un atteggiamento realistico ed una sensibilità che sappia cogliere le sfumature nell’altro che ci possono indicare che il suo potenziale potrebbe esprimersi anche in forme maledettamente negative.
Una cultura, da trasferire ai figli, che sappia empatizzare con il dolore altrui.
Papà Foffo e papà Prato sembrano non aver empatizzato abbastanza, ad oggi, con il dolore di una famiglia straziata e segnata per sempre dalle mani crudeli dei loro figli precipitati in un pozzo di orrore senza fine. Non hanno chinato la testa. Non hanno chiesto scusa. Hanno solo messo le mani davanti, come a dire “Non so come possa essere successo, ma IO non c’entro”.
Io, io e solo IO.
“Io” da cui sono cresciuti e sono stati educati due figli i quali a loro volta, hanno agito in nome di un EGO e di un IO, evidentemente senza un D’IO.
A quella cultura siamo chiamati a rispondere, con la conoscenza, con la prevenzione, con la sensibilizzazione e con l’educazione ai sentimenti.. per ricordare C. G. Jung “Nutrite l’anima perché la fame la trasforma in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata“.
Dott.ssa Simona Toto, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, Pomigliano d’Arco.
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