23 Apr Meditate, gente, meditate.
Siamo ormai abituati a non tollerare il silenzio.
Spesso in casa si lascia la tv accesa “per compagnia”, quando si è con un’altra persona ci si sente quasi obbligati a riempire ogni secondo di parole vuote, quando soffriamo (perché a tutti e dico tutti, capita di soffrire) si è abituati a cercare conforto nelle parole degli altri: si confida la propria sofferenza agli amici, ai familiari, talvolta la si condivide con il parrucchiere o l’estetista di turno.
Questo perché si crede che parlare dei propri problemi aiuti a mandarli via.
Si è scivolati, favoriti dai social network e peggio ancora, dai talk show pomeridiani dove tronisti e pubblico sono soliti urlare le loro idee con fervore da mercato ortofrutticolo, dicevo, si è scivolati in un esibizionismo del dolore a tutto spiano, dolore urlato, talvolta vomitato in abbondanza e senza interruzione sul malcapitato di turno.
Eppure nel mondo antico non funzionava così… si era capaci di sostare nel silenzio.
Nella nostra epoca in particolar modo, quando si presenta un problema, siamo colti dalla frenesia di volerlo risolvere immediatamente, siamo diventati intolleranti all’attesa, frenetici nell’esigere soluzioni immediate.
Questo articolo non è un inno all’inattività e all’inerzia, piuttosto una riflessione sul bisogno che abbiamo di tenere sempre tutto sotto controllo, anche le emozioni negative: preferiamo respingerle, rifiutarle, piuttosto che accettare che anche queste fanno parte della vita ed in quanto tali, vanno vissute.
Come sottolineava Marsha Linehan, psicologa psichiatra nota per la sua terapia dialettico-comportamentale, è proprio questo che fa la differenza tra il dolore e la sofferenza: la fuga dalle emozioni spiacevoli trasforma il dolore in una sofferenza prolungata. La sofferenza è un’estensione del dolore e si manifesta quando ci opponiamo alle cose per come esse sono al momento presente, quando siamo ostinati nell’imporre la nostra volontà sulla realtà cercando di stabilire tutto o rifiutando di fare ciò che è necessario.
Non di rado, la dimensione dell’accettazione la troviamo quando siamo in grado di calmare i nostri pensieri, perché no, allontanandoci di tanto in tanto dalla rumorosità della vita.
Il silenzio spaventa. Forse perché avvertito come un vuoto da riempire ad ogni costo, forse perché confuso con la passività o perché annoia. O forse (più probabile) perché nel silenzio contattiamo le nostre zone d’ombra, possiamo vedere quello che non ci piace o possono emergere aspetti del sé temuti e tenuti a bada.
Così preferiamo cercare rifugio nel rumore, vivere in modo eccessivo per non rischiare l’introspezione.
Eppure il silenzio affina le nostre capacità percettive, induce alla creatività e se vissuto fino in fondo diventa fecondo perché consente alle emozioni di essere contattate e non respinte, anche quelle negative, perché ognuno di noi ha bisogno di emozioni positive e negative, del bene e del male, del bianco del nero e della scala di grigi.
Solo quando si va in fondo al proprio dolore, si trova la spinta per la risalita. Solo quando si impara a so-stare con se stessi, si diventa forti.
Certo, più facile a dirsi che a farsi, ma se non riusciamo da soli, si può chiedere aiuto ad un terapeuta, che non è l’equivalente del decantare il proprio dolore a destra e a manca in una logorrea del tormento che certamente non è la via maestra per la serenità. Un terapeuta che aiuti a ricomporre i pezzi del puzzle, che aiuti a collegare le esperienze attuali con la propria storia di vita e non in ultimo, che insegni a stare con se stessi.
Meditate gente, meditate.
“Uno è padrone di ciò che tace e schiavo di ciò di cui parla”.
Simona Toto, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, Pomigliano d'Arco (Napoli).
No Comments